IL BANCHETTO DI PULCINELLA IN TEMPO DI PESTE

 Teatro Tordinona

Testo e regia di Renato Giordano

Recensione di Vincenzo Sanfilippo

In questo spettacolo la scrittura scenica viene articolata in una profusa libertà del gioco scenico: fra tradizione e ri-codificazione contemporanea del personaggio di Pulcinella, quale rilettura e riscrittura contemporanea iniziata da Renato Giordano all’interno del teatro e delle arti figurative promosse dallo SNAD. 

Trattasi di un’esperienza vissuta con entusiasmo sia dal pubblico  e da quanti altri vi partecipano come interpreti: Renato Giordano ( Pulcinella), Roxy Colace ( Coviella), Nunzia Plastino ( Rondinella), Maria Elena Pepi ( Rosetta), Roberto Gagliardi ( prete). Impianto scenico di Ulisse Benedetti. Aiuto Regia: Livia Cascarano. Costumi Giulia Mininni. Musiche originali di Vito Ranucci su testi di Renato Giordano. 

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Il contesto storico ci riporta all’anno 1656 dove Roma c’è la peste, flagello d’infezione. Si corre ai ripari con la chiusura delle porte della città, l’allestimento dei lazzaretti, la recinzione di Trastevere dove si verificò il primo caso di contagio; inoltre, l’interdizione dalle attività lavorative, il passaggio dei carri pieni di ammalati e il defluire lungo il Tevere dei barconi carichi di cadaveri portati dai monatti dall’Isola Tiberina fino alle fosse di San Paolo. Tutto ciò atterriva il popolo senza distinzione di ceto sociale, piegato  in estenuanti processioni di penitenza.


Renato Giordano autore, regista, è  anche attore  nel ruolo di pulcinella,  ingentilito da un elegante costume di raso bianco, con  redingote in fiandra di cotone, al collo ampio colletto con  cappuccio  a punta, lo vediamo con fare stravagante allestire un banchetto  conviviale nell’atmosfera di  uno dei Rioni della Roma Barocca, dove al tempo stesso della monumentalità coesiste una piccola piazzetta der vicolo (...)

Attorno a un grande  tavolo  adorno di bicchieri e bottiglie di vino,  Pulcinella con atteggiamento euforico anela a godurie esistenziali, elevando i piaceri della vita a placebo, rispetto al  dolore collettivo  dovuto alla morte nera del morbo pestilenziale. Vuole brindare perché ancora si è vivi e in buona salute,  ma soprattutto per ricordare - attraverso qualche piccolissima pausa di silenzio - coloro che non ci sono più. Tra questi si brinda all’amico bergamasco Arlecchino, e anche un brindisi alla povera moglie Colombina, deceduta a causa della pandemia; ma principalmente  si brinda per festeggiare l’eredità che ha ottenuto dalla morte del padrone Don Pasquale, che gli ha lasciato oltre le sue ricchezze, anche la vedova Rosetta e l’amante Rondinella. 

Ad interpretare, con autentico talento, le tre pulzelle romane: Roxy Colace ( Coviella), Nunzia Plastino ( Rondinella), Maria Elena Pepi ( Rosetta); tra loro primeggia Don Pulcinella dandosi arie di Presidente che si bea della compagnia di splendide avvenenti  giovani donne in festosa rivalità  tra loro.  Sono autentiche co-protagoniste, qui nel ruolo di amanti  senza i diritti maritali  riconosciuti alle coniugate. Esprimono  gelosia,  dipendenza affettiva e possesso,  quale atto umanissimo, dove il loro brindare è preludio di buon augurio per anestetizzare la paura della pestilenza in atto.

Con le loro squillanti e suadenti voci femminili sono in costante contrappunto con le aspettative che ogn’una di loro possa essere la prescelta nuova moglie di Pulcinella.  Sono tutte, proprio tutte, ad aspettare il loro turno con l’intento di unire la posizione sociale ai soldi ereditati da Pulcinella.

L’ambientazione di degrado è qui ben rappresentata dal canto umbratile  della mezza soprano Maria Elena Pepi, mentre  la platea ascolta il rumore sordo delle carrette che trasportano gli appestati falcidiati dalla metastorica epidemia. E qui l’autore Giordano unifica passato remoto e contemporaneità: tra le vicende storiche di Pulcinella al tempo della peste  ed  epidemia contemporanea, riattualizzando il passato con la consapevolezza dalla propria esperienza di clinico.

 

Giordano nel tempo si è teatralmente evoluto a dismisura. Egli è il personaggio che con le sue acrobatiche progettualità sceniche, riesce a riattualizzare barriere spaziali e temporali,  ovvero la vitalità e gli slittamenti epocali proprie  del teatro. Per cui le molteplici dimensioni umane e artistiche di Giordano, avallano la  sua dimensione autorale registico- letteraria.

L’argomento trattato dall’autore costruisce una scrittura scenica paradossale, maliziosa, farsesca, molto simile ad una pungente  pochade, in quanto mostra un pulcinella giullare di strada che  si interseca al Pulcinella d’autore appositamente costruito per restituire un’immagine del sentimento tragicomico del personaggio-icona. 

Egli ripropone un Pulcinella smargiasso, ricco di allusioni e d’insulsi vezzi linguistici,  riproduce un sistema simbolico dell’archetipo irridente sbeffeggiatore dei potenti e risolutore bizzarro di intrecci scenici apparentemente inestricabili. Ovvero, a partire dalla sua codificazione teatrale, come maschera mediatica, favorisce un’identificazione tra la dissolutezza e l’immoralità, finanche deiezione verbale qui in perfetto ruolo di maschio libertino alla ricerca dei piaceri licenziosi da vivere negli atteggiamenti di un  smargiasso vitaiolo al chiaro di luna, attorno ad una tavola imbandita di vino e di  brindisi, in preliminari aspettative di seduzioni, inni all’amore e al cibo quale binomio indispensabile di sopravvivenza.

Da evidenziare, - come in  un quadro d’epoca -,  l’ingresso di un prelato ( Roberto Gagliardi) che nel nome del Sacrocuore  intima a Pulcinella e gentili donzelle di ritornare nelle loro case,  di cessare - a suo sentire - l’ignobile banchetto;  e attribuendo l'epidemia di peste  allo zampino del diavolo,  continua a redarguire, come reietti e scellerati, i componenti dell’allegra brigata, accusati dal prelato  di esternare  canti e sollazzi,  profanando quel dovuto silenzio da dedicare ai morti (Da notare che si era in epoca di oscurantismo  dove continuavano ammonimenti inquisitoriali da parte delle gerarchie ecclesiastiche). E pulcinella gli risponde con un proverbio : << Chi more giace, chi vive si da pace. Nelle case buie e tristi si muore, mentre all’aperto nel rione si sta bene, in compagnia delle morose >>. Per cui - secondo la tragicomica saggezza popolare - è meglio metabolizzare il trauma della perdita per cercare di riprendere a vivere normalmente. Il pubblico della platea del Tordinona  (provvisto di mascherina) intuisce subito, con un ridanciano applauso, lo sprezzante scialo ostentato di Pulcinella verso restrizioni e limitazioni che sono, ovviamente, metafora della pandemia attuale da Covid.

La sfrenata loquacità etilica delle ragazze e la sregolatezza di Pulcinella assumono tutt’altro significato, in quanto sembrano fare il verso  agli eccessi d’una società nobiliare barocca caduta in disgrazia di povertà, subita come una sventura singolarmente grave. Adesso Pulcinella è diventato benestante, avendo ereditato; dunque occorre che la sua atavica povertà sia alleviata.



Innanzitutto si atteggia in modo tronfio e chiede alle sue ospiti femminili di essere chiamato Don Presidente Pulcinella. Ci troviamo ad assistere ad una parodia antinobiliare irridente e sarcastica. In tal senso, il suo linguaggio pulcinellesco si manifesta come rappresentazione sonora del gesto, come trasposizione onomatopeica di quel carattere sfuggente e plurimo che così bene caratterizza la maschera. In questo modo il linguaggio proposto da Giordano si manifesta anche come rappresentazione plateale del gesto, che accompagna la trasposizione proteiforme di quel carattere sfuggente e plurimo così ben caratterizzato: attuata proposta interpretativa di un carattere ironico, ingordo, sfrontato e romanamente caciarone e trasgressivo. Scelta  operata dalla regia  per dare adito ad una serie di interpretazioni abbastanza particolari che possono tirar fuori il meglio e il peggio dell’essere umano.

Ecco che una nube di fumo surreale proietta l’azione nell’ iperrealtà dove  a Pulcinella si presentifica il suo benefattore Don Pasquale redivivo, insieme  alla defunta moglie Colombina portata anzitempo via dalla peste. Sono ombre litigiose, entrambi lo  redarguiscono minacciandolo di elencare il suo nome  di appestato al “cerusico  della peste”, predestinandogli che ben presto Lui e le sue amanti andranno anche loro  all’altro mondo. E Pulcinella frastornato non riesce a capire se quello che gli sta accadendo è soltanto un sogno o frutto della propria fantasia, dove il mondo dei vivi ed il mondo dei morti possano incontrarsi e comunicare attraverso una serie di stupefacenti ombre. 

   È facile immaginare come la figura del “Cerusico della peste” avesse un forte impatto nell’immaginario collettivo, associato all’idea della morte, dove lo vediamo entrare in scena  abbigliato con una tunica nera lunga fino alle caviglie, guanti e occhiali protettivi, un cappello a tesa larga e una maschera a forma di becco, da cui esce perentoria la frase: << La peste è Peste >>

Ma nel finale subentra una situazione imprevedibile e irreale: Pulcinella si accorge  che il grande tavolo dove prima si brindava  è diventato un desco funebre; per la prima volta vede la Luna che rischiara ed illumina il  palcoscenico  diventato una desolata piazzetta circostante. La tensione del male pandemico si scioglie in una commozione liberatoria, quando Pulcinella si arrampica su una ideale scala di luce   per raggiungere la luna, anelando ad  un  rapporto multiforme di palingenesi/di rinascita tra esistenza, maschera e forma: “maschere sociali” che tutti noi indossiamo stravolgendo ogni visione consolatoria della realtà. ( Vincenzo Sanfilippo.)



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