Dall'Inferno




di Alfio Petrini, "Drome", gennaio 2005







"Dall’inferno - from hell"
Alfio Petrini
"Drome", gennaio 2005

Pasolini e Testori appaiono come i principi della scena nazionale. Figurano in modo diverso nella linea di tendenza del teatro di dedica, che agisce per convergenze parallele con quella del teatro della memoria. Lo sguardo di un nutrito gruppo di Compagnie, impegnate sul versante della tradizione e della ricerca, si è appuntato nel corso della corrente stagione teatrale su una serie innumerevole – ce n’è per tutti i gusti, infatti - di personaggi della storia, della cultura, della musica e dello spettacolo. Le due tendenze hanno più di un significato. 
Prima di tutto confermano un dato. Non esiste una drammaturgia nazionale, ma molte drammaturgie. Tutte importanti. Tutte da sostenere. Destinate a tanti generi di teatro e a tanti tipi di pubblico. Una realtà tutto sommato ricca, che attende di essere riconosciuta dalla comunità nazionale in funzione del passaggio dal pluralismo dilagante della chiacchiera al pluralismo sintetico dei fatti. Rivelano che il teatro di tradizione e il teatro di ricerca sono vivi e vegeti, con piena soddisfazione da parte di chi li pratica, ma anche di coloro che credono nella salvaguardia della differenza e nella creazione di un patrimonio teatrale condiviso, bipolare, il più variegato possibile nei contenuti e nelle forme, tale da consentire a tutti gli artisti di coltivare le predilezioni di fondo senza alcun condizionamento, neppure quello derivante da un "mercato libero" inesistente. Indicano forse una carenza inventiva. Forse una difficoltà – anche oggettiva - a creare storie originali. Di certo presumono una concezione del teatro come testimonianza e segno dei tempi. Rivelano un bisogno ciclico che si manifesta attraverso l’esaltazione della civile convivenza nella prospettiva delle sorti progressive o la rappresentazione mimetica della tragedia dell’uomo. Apprezzabile sul piano del partito preso individuale, suscita qualche perplessità sul versante della pratica teatrale. E’ più "civile" un testo - scritto per via positiva - sull’assassinio di un uomo valoroso ucciso dalla mafia, oppure il testo – realizzato per via negativa - sul quel Riccardo il Terzo che compie una caterva di delitti? Tutti e due sono la negazione della violenza. Ma perché i personaggi "cattivi" sono più interessanti dei "buoni"? Perché offrono un vantaggio. Un movimento di valori di rimbalzo che va dal negativo al positivo senza il rischio di cadere nel pantano delle forme retoriche buoniste. 
Tante direzioni di ricerca e tanti teatri, dunque. Ma le buone intenzioni non sempre generano buone pratiche teatrali. Linguaggi desueti, rimasugli e rimasticamenti esangui, operette morali per vani tentativi mimetici o sperimentazioni piene di formalismi respingenti, proposte piene di contenuto e vuote di significato, stanno dietro a molti comunicati stampa. Ma questo è un altro discorso. 
Fabrizio Arcuri e Elio Castellana - rispettivamente regista e attore storici dell’Accademia degli Artefatti -, con l’ultimo spettacolo "Dall’inferno" propongono un viaggio senza ritorno, originale e innovativo, dedicato a Pasolini, Tarkovskji, Muller e Manganelli. Temi centrali: "identità e potere". Identità d’individui divenuti col tempo singolari e divisibili. Identità di famiglie senza unione con secrezioni furtive di animalità. Identità di polis che non c’è per la mancanza di un patrimonio culturale condiviso. E dove non c’è identità, il potere dilaga. Fa il bello e il cattivo tempo. Ebbene, Arcuri e Castellana hanno raccolto materiali derivandoli dalla letteratura, dal cinema, dalla cronaca e dalla realtà quotidiana., con la consapevolezza che il quotidiano è una "muta assurdità" e che oggi di verità si muore. La verità che induce alla messa in scena della sofferenza e delle disavventure umane, del disagio e della emarginazione allo scopo di "smuovere la coscienza degli spettatori quel tanto che basta per rendere loro piacevole e confortante il tempo dell’applauso". I materiali organizzati non ai fini di una messa in scena, ma di una "simulazione di messa in scena" sono stati immessi nel crogiuolo di una scrittura scenica che sceglie la via maestra della pluralità del linguaggio, intrecciando efficacemente comunicazione chiara e comunicazione oscura. Una "simulazione" che tiene saldo il rapporto contenuto/forma e mette in discussione gli aspetti mistificatori della comunicazione di massa senza comunicazione, determinata dalla mancanza del rapporto di relazione con l’uomo totale e con le sue vitali necessità.
"Dall’inferno" rappresenta un salto di qualità notevole rispetto ai due precedenti spettacoli di Accademia: "Kindergarten" - incentrato su un accumulo di simboli che stagnavano nel velo della superficie e "L’amore di Fedra", testo di Sara Kane, nato con il presupposto della trasformazione della parola scritta in parola parlata, risultata al contrario torbida e deficitaria per la sovrapposizione violenta dei processi di astrazione e per carenze interpretative. Il risultato conseguito con questo nuovo spettacolo non è dato dalla presenza di strutture metaforiche o d’immagini simboliche, ma dalla raccolta delle "vive scorie" di un mondo fatto di cadaveri, attentati, armi chimiche, convention politiche, vittime, macerie, e dall’attraversamento leggero degli "sfuggenti percorsi della retorica". 
Il regista Arcuri, dopo aver fatto esplodere il senso del mondo, raccoglie pietosamente le macerie - frammenti di vita quotidiana, resti di visioni, lacerti di pensiero – e li finalizza al conseguimento di una sorta di "sospensione di senso". E così, la morte di Pasolini, le avventure di un giovane clown, l’intervista ad un politico, la performance di un crooner ambiguo, le decapitazioni, le parole d’amore di una donna – replicate presumibilmente all’infinito e forse riferite ad un rapporto inesistente – che l’inquilino dell’appartamento accanto recepisce attraverso la parete per masturbarsi, lo scambio canoro tra sessualità maschile e femminile, si pongono come occasioni per indagare le macerie sulla "soglia della vivibilità" e per auspicare la nascita di un possibile sentire comune - anche minimo -, di un patrimonio sensibile e cognitivo - almeno in parte condiviso -, di un punto d’incontro nella discutibile visione della realtà e nella definizione di un’identità - seppure incerte e vacillanti. 
Lo spettacolo è un oggetto artistico intertestuale, intermediale e sinestetico, che si fa apprezzare anche per la colonna sonora e le immagini in movimento. Esamina dettagli e dilatazioni dell’attimo (quello della tragedia). Monta campi lunghi e primi piani. Offre sfocature e digressioni, dissolvenze incrociate e disarticolazioni improvvise. Suggerisce significati diretti e di rimbalzo, aperti a diverse interpretazioni. Produce una realtà addizionata di natura poetica, avvolgendo lo spettatore accorto con maree oscure e perigliose. Più che invitarti ad essere guardato, si affaccia come un oggetto che ti guarda, suscitando lo "smarrimento" messo in preventivo. E le macerie sono anche macerie di senso, che non lasciano scampo ai seminatori di speranza del terzo millennio. 

A parte qualche lentezza, lo spettacolo procede deliberatamente in modo sporco e malandato, con un’architettura scenografica che fa venire nostalgia per il teatro povero, ma che si giustifica con la complessità torrentizia della materia linguistica e con la necessità di creare una macchina che consenta lo sviluppo lineare e verticale del processo di formalizzazione. Un apparato che non serve l’attore, ma lo ingloba e lo divora. E, opportunamente, ne confonde le scarse abilità. Dall’attore travolto dalle emozioni si è arrivati all’attore che non fa più nulla. Algido. Stratega di comportamenti neutri. Senza tensione interna. Carico di naturalità, che non è naturalezza, offre un contributo accidentale, casuale, artisticamente discutibile. Sembra quasi che voglia identificare l’arte con se stesso, invece che se stesso con l’arte. E’ l’attore se stesso. Privo di necessità vitali, si lascia trascinare dalla miscela linguistica eterogenea organizzata dal regista, al quale va riconosciuto non solo l’impegno contro gli stereotipi e un buon comportamento poetico rispetto alle cose che racconta, ma anche l’abilità (questa volta, sì) nel manovrare gli attori se stessi in funzione della scrittura scenica, pagando un prezzo minimo. 
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