Poliziano di E. A. Poe Regia Riccardo Reim




di Vincenzo Sanfilippo, luglio 2009









Scritto da Vincenzo Sanfilippo    

Teatro      La sera della prima


POE, LE TENEBRE, LA METAFORA DELL’OCCIDENTE


Nell'anno del bicentenario della nascita di Edgar Allan Poe il Globe Theatre di Roma lo onora con la rappresentazione del “Poliziano” ( Politian,  unfinished tragedy).
 La versione in italiano è diretta da Riccardo Reim, con musiche di Massimo Bizzarri. Interpretato da  Marco Belocchi (Poliziano), Elisabetta Ventura (Lalage), Luca Negroni (Ugo), Fabio Mascagni (Castiglione), Giacomo Rosselli (San Ozzo), Mario Di Fonzo (Baldassarre) e la partecipazione straordinaria di Silvana De Santis (Giacinta).
 Lo spettacolo è organizzato dal Teatro dell'Istante, dall'Assessorato alla Cultura di Roma e Zetema Progetto Cultura, con il patrocinio dell'Ambasciata degli Stati Uniti d'America, dell'American Academy in Rome e dell'Ambasciata britannica
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 Riccardo Reim, (autore che, molti ricorderanno, abbiamo avuto ospite nella III edizione di Schegge 2003 con il suo premiato testo “Giada D’Oriente”) torna a  cimentarsi,  e con successo, in un lavoro di traduzione e riscrittura, di regia e di allestimento scenico; in questo caso  dell’unico testo teatrale, peraltro incompiuto, di Edgar A. Poe dal titolo originale ''Politian,  unfinished tragedy''.
L’allestimento, visto sul palcoscenico elisabettiano del Globe Theatre di Roma, a villa Borghese, è a dir poco intenso nel susseguirsi fluido delle azioni sceniche e dei recitativi non privi a tratti di citazioni “protoromantiche”, che sorreggono l’ azione  narrativa, la quale non viene mai meno durate le due ore  di spettacolo,  seguito dal un pubblico avvezzo alle sue creative regie sempre di alto livello. 
Un’esoterica scenografia (corredata da una selva di rami e foglie secche rischiarate da ceri accesi, evocanti l’arcadia delle pulsioni secondo il trovarobato d’una artigianale scenografia) impagina gli attori abbigliati con tute mimetiche paramilitari.
Entrano in scena, in fibrillazione, come catapultati in vortici di violenza emotiva, rotolandosi sul palco in assetto di guerra, si spintonano e si trascinano a vicenda nell’atto di affermare la loro supremazia; sono irrazionali, stravaganti, istrionici, ma al contempo solitari, tenebrosi, appassionati e un po’ cinici.  Si snodano  e si intrecciano  ossessionati dalla necessità di trovare una luce sulfurea, quasi tragica, sulle squassanti infatuazioni d’una vita  senza confini.
 Il narrare di Reim non è di natura oleografica, ma  denso di rimandi evocativi. La sua lettura semantica, il suo approccio al testo (lasciato incompleto da Poe) inducono a qualche autonoma, necessaria riflessione: ovvero il “senso”, i tempi, la dialettica teatrale che un regista contemporaneo, attraverso il moltiplicarsi delle invenzioni e dei quadri scenici, è necessario che abbia rispetto alla struttura letteraria, labirintica, “narcisistica” del testo originario.

 Quelle pagine (mirabilissime) della letteratura americana d’ottocento sono qui espressivamente e modernamente  restituite con contemporaneo linguaggio teatrale. Soprattutto visualizzati sulla postura dei corpi e  gesti allusivi,  sulle interpretazioni enigmatiche ma di per sé eloquenti, anche a tratti introspettive. Bravissimi gli attori nella resa dei loro ruoli: Marco Belocchi (Poliziano), Elisabetta Ventura (Lalage), Luca Negroni (Ugo), Fabio Mascagni (Castiglione), Giacomo Rosselli (San Ozzo), Mario Di Fonzo (Baldassarre) e la partecipazione straordinaria di Silvana De Santis,  incarnazione di quella femminilità combattiva con l’uniforme grigioverde che anima e dà il giusto ritmo recitativo- propulsivo all’azione scenica.
Comunque lo si voglia,  in questa traduzione e  ri-scrittura scenica, Riccardo Reim attua, con una lingua teatrale viva, l’assoluta padronanza della parola e al contempo la piacevolezza nella composizione, nella sequenza dei fatti e dei personaggi, esattamente ciò che il tempo teatrale richiede: il senso dell’azione. Lievitazione di un delirio collettivo dove i “campi magnetici” degli incontri amorosi e degli scontri di duello di cappa e spada si schiudono, sul filo di una ritmica deambulazione, alle sorprese del “collage” narrativo, che il regista ri-compone con minuziosa delucidazione.
La narrazione si “avvita” come fantasmatica figura di alienazione di un corpo simbolico come oggetto storico, miticamente evocato nella scrittura testuale, esatta quanto labirintica, finalizzata a tracciare in negativo la mappa di un nord-America ottocentesco di cui Poe aveva colto il meridiano splendore.

Soprattutto perchè la vicenda narrata appare indubbiamente paradigmatica nelle pieghe dell’intreccio molto simile ai “Racconti del terrore”:  la piéce è tratta da un fatto di cronaca nera del tempo, la ''Kentucky tragedy'', una vicenda ''di onore e di sangue'' di cui i giornali si occuparono a lungo.
La trama satura di barlumi intermittenti di attualità racconta di una ragazza della buona borghesia, sedotta da un uomo politico piuttosto in vista,  che la abbandona quando lei si accorge di essere incinta. La ragazza perde il bambino e dopo alcuni mesi accetta di sposare un giovane  a condizione che costui vendichi il suo onore. Il giovane sfida l’uomo politico a duello, ma questi ammette la propria colpa e rifiuta di battersi, finché la notte del 6 novembre 1825 il giovane esasperato penetra nella sua casa e lo uccide. Subito dopo, i due sposi tentano il suicidio: Il giovane sfuggito alla morte, viene condannato all’impiccagione che verrà eseguita il 7 luglio 1826.
Vicenda dicevamo paradigmatica sugli effetti passionali, distruttivi o autodistruttivi dei personaggi del dramma, perché Poe architetta la sua trama drammatica, proiettandola però lontana nel tempo e nello spazio (la Roma rinascimentale: l’ultima scena si svolge addirittura nel Colosseo, come se i protagonisti fossero dei gladiatori,  luogo deputato di una civiltà dello spettacolo in cui i confini tra realtà e fantasia si risolvono in violenza. Dove si muore in tableaux perversi che visualizzano in scena rituali sanguinolenti.).

Quasi metafora storica perchè incentrata sulla contraddittoria e sfumatissima figura del protagonista, la cui ambiguità è già indicata dal nome (Poliziano, direttamente ispirato al poeta italiano, investito però di un titolo inglese, “Conte di Leicester”). Per tali motivi Riccardo Reim ha gioco facile nel presentare  questo allestimento nell’ampia cornice di un teatro elisabettiano il cui impatto visivo nel  contesto urbano di Roma riassume un microcosmo delle commistioni teatrali.
 Il poeta Edgard Allan Poe aveva in mente nel suo metaforico dramma, imperniato sull’interesse per l’esplorazione dei traumi originari della cultura occidentale, e non solo,  l’evolversi storico del potere, fondato sulla violenza, sulla sopraffazione e corruzione.
Applausi prolungati per uno spettacolo  eclatante destinato a entrare nella dynasty del teatro scritto dai poeti maledetti.
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