Da Vincenzo Sanfilippo: Resoconto su Schegge 2009

RESOCONTO CRITICO SULLA IX EDIZIONE DI SCHEGGE D’AUTORE

Festival della Drammaturgia Italiana

Per l’Editore Luciano Lucarini

Scritto da Vincenzo Sanfilippo. 28/05/2009


1. Quando durante la Rassegna, Renato Giordano, Direttore, ideatore e curatore artistico di Schegge D’Autore, mi propose per l’editore Lucarini di scrivere un resoconto ricco di spunti e riferimenti sui contesti di questa rassegna, diventata già dalla scorsa stagione Festival della Drammaturgia Italiana, mi resi conto che questo sostanziale cambio di denominazione debba avere l’opportunità di riunire a confronto e, per così dire, a consulto, un nutrito gruppo di <> che si sono distinti nelle diverse passate edizioni di “Schegge”. Suggerirei un convegno da realizzarsi nella cadenza della Decima Edizione, finalizzato a far uscire dall’isolamento la giovane drammaturgia italiana, dove in quella sede non solo si potrà riflettere su alcuni nodi generali contingenti il problema teatro, ma soprattutto operare un resoconto sulle ipotesi di lavoro svolto in questi nove anni della Rassegna, analizzando le testimonianze e le esperienze di una drammaturgia nascente su un ventaglio esperienziale il più articolato possibile. 

2. Si chiede adesso al Festival della Drammaturgia Italiana, al suo nucleo Direttivo e organizzativo e ai critici che supportano la rassegna di non svolgere solo un lavoro di archiviazione, della IX edizione, ma di elaborare fin da ora delle strategie di anticipazione culturale della Decima, è quindi di contribuire fattivamente affinché alcuni spettacoli già selezionati vengano programmati nel corso della prossima stagione.Una doverosa riflessione a questo punto del nostro tempo e della nostre vite, impiegate a portare avanti questo comune progetto sull’essere “autori”, comunque va fatta. Ciò comporta tutta una serie di ripensamenti riguardo l’operato di questo lungo decennio. Ripensamenti di come la rassegna è cresciuta e con essa gli autori che vi hanno partecipato, considerati “la generazione di Schegge” coniata da Renato Giordano, anch’esso autore, che organizzandola e partecipandovi ha contribuito a far crescere l’annuale rassegna, considerandola un prezioso strumento di verifica. 

3. - Le linee guida della Rassegna sono scaturite dall’idea di ipotizzare ( dopo le compiute, diversificate espressione delle avanguardie poetiche del secolo scorso) la possibilità di fondazione del linguaggio teatrale contemporaneo per poter esplorare, attraverso il “corto teatrale”, possibili forme evolutive, come se il teatro del ‘900 una volta raggiunta una sorta di compiuta polisemia scritturale fosse ancora tutto da riscrivere. Ma con quali istanze e finalità ci chiediamo? Sicuramente attraverso un ampio ventaglio di “autori”, interessati alla scrittura drammaturgica, che sappiano immaginare, pensare e creare la scrittura scenica dentro un teatro, per tracciare la fisionomia di un itinerario, di un percorso umano che possa includere una scrittura testuale drammaturgica di “contenuti” che possa diventare “forma” vivente del teatro. 

4. Il “Festival della Drammaturgia italiana”, per questa importante denominazione, potrebbe, in quanti si occupano di questioni teatrali, suscitare argomentazioni controverse, fonte di equivoci e dissotterramenti di annose questioni su quello che debba essere considerata scrittura drammaturgica. D’altra parte, accade di non essere accettati o essere misconosciuti da alcuni addetti ai lavori (imprenditori teatrali e critici) ormai ammorbati dal pessimismo generale che investe complessivamente il far teatro. Noi che abbiamo “sposato” l’annuale precariato creativo di Schegge, siamo convinti che non esista la periodica crisi del teatro, perchè il teatro è crisi, il teatro per sua natura non può essere realtà positiva, il teatro è sempre crisi. E quindi il fatto che ci siano pochi autori non vuol dire niente. Se dalla generazione di Schegge uscirà anche un solo autore degno di questo nome, vuol dire che questo periodo propedeutico di formazione è servito. Quando la critica afferma che non ci sono autori teatrali dice nello stesso tempo una verità e una bugia. Dice la verità, perché effettivamente non esistono le oggettive “condizioni” che consentano la realizzazione di testi nuovi; e dice una bugia perché, malgrado tutto, gli autori nuovi esistono e sono gli stessi uomini di teatro che fanno i loro spettacoli. 

5. Ci sono anche carenze storiche che fanno da attenuanti a queste affermazioni: la nostra è una società teatrale in cui ci sono scrittori teatrali con una buona produzione di commedie senza che siano stati opportunamente rappresentati. La scusa? Quasi sempre si teorizza a danno di questi autori l’osticità dei loro testi che produrrebbero la non-comunicazione fra palcoscenico e platea. Sappiamo che attraverso opportune e propedeutiche strategie di programmazione teatrale, si preparano gli eventi che possono essere capiti da un pubblico avvezzo al teatro che è numeroso come si evince dalle programmazioni annuali che hanno inserito autori italiani, misconosciuti dalle platee italiane, ma affermati all’estero come il commediografo Mario Fratti, docente nella prestigiosa Columbia University, e all’ Hunter College di New York, autore ormai naturalizzato americano molto rappresentato con un nutrito repertorio di commedie e musical. 

6. Di Mario Fratti vogliamo citare Nine, una sua commedia scritta nel 1981 e liberamente ispirata dal film 8 e mezzo di Federico Fellini, che è diventata un musical di enorme successo di pubblico e di critica, un vero e proprio fenomeno teatrale con oltre duemila repliche. A Roma adesso Mario Fratti viene rappresentato nel programma dei corti teatrali, il primo La partita, con la regia di Tenerezza Fattore dove due coppie non più giovanissime si ritrovano intorno ad un tavolo a giocare a carte: la conversazione legata alla partita ha costanti rimandi all’eros. Prevalgono le donne, le quali inoltrandosi verso l’ambita “quaestio” con humour, curiosità e senza pregiudizi, coinvolgono la platea rivelando sorprese inimmaginabili. La sua scrittura di gusto americano, è scevra da ridondanze, metafore e sfumature tipiche del teatro europeo; queste peculiarità la rendono manifestazione complementare ad altri atti non meno rituali della vita, tali da poter essere vissuti e fruiti come spettacolo.Come si riscontra nel suo secondo corto teatrale Due Donne , regia di Daniele Valenti, dove l’argomento concretizza fisicamente due belle donne, nude, sotto le lenzuola, che si confrontano dopo una stravagante notte d’amore attraverso verità, ora divertenti ora stravaganti, frutto di curiosità e tortuosi quanto piacevoli percorsi protesi insaziabilmente verso l’eccesso. Ed è qui, in fondo, racchiuso con humour scritturale lo spirito dell’emancipazione comportamentale che conduce e spinge le due donne a confrontarsi sulle possibili soluzioni spasmodiche del sesso inserito nei risvolti della quotidianità. 

7. Da Renato Giordano una novità assoluta per merito e per metodo, che risponde alla domanda: come coniugare teatro e scienza? La risposta è stata efficacemente data in L’isola che non c’è, titolo riferito alla interessante e coinvolgente tematica medico-scientifica “in divenire”. Lo stesso autore e regista, presente in scena, introduce lo spettacolo, racconta, presenta i vari personaggi, interpretati, in modo esemplare, da Vanni Materassi (Macleod), Roberto Posse (Banting), Fabrizio Marotta (Best), Goffredo Maria Bruno (Collip), Livia Cascarano (Edith), Simone Perinelli (Grenaway), Nunzia Plastino (Clowes Lilly). Lo spettacolo, pur essendo un work- in- progress, preannuncia già una sua compiutezza di scrittura scenica. Lo vedremo integralmente la stagione prossima, con un cast di quindici attori, sul palcoscenico del Teatro Argentina o del Teatro Valle di Roma. La tematica è di tipo scientifico, com’è stato, quest’anno, per “Copenaghen” di Fryer, con Umberto Orsini e Massimo Popolizio. O, passando alla classicità, accadeva per “I fisici” di Durrenmatt e lo stesso “Galileo” di Brecht. E sono, inoltre, strabilianti le coincidenze tra le forme “centrifugate” dell’arte e letteratura futurista e, dunque, delle istanze cervellotiche degli anni venti, e le simultanee scoperte dell’insulina, tramite un metodo inizialmente intuitivo e poi realizzato con procedimenti biochimici, sperimentali. Infatti, in questa ricerca, l’estratto di pancreas degenerato in soluzione Ringer, preparato sterilmente e a bassa temperatura (onde evitare l'inattivazione da parte dei residui di fermenti digestivi), viene anch’esso sottoposto a “centrifugazione” e purificazione (dai lipidi e sali). Lo spazio della parola, narrata di Giordano e dialogata dagli attori in veste di clinici, fluidifica l’atmosfera del Tordinona, penetra nella forma dell’argomentazione scientifica, la seziona, la separa e la scandisce. Ma la rende anche fenomeno d’un “teatro di documenti”-cito volutamente l’idea-spazio di Luciano Damiani- scoprendone senso e ragione, in quanto somma di mutazioni d’ogni “spostamento in avanti” della ricerca. Il momento della verifica oggettiva è superato dall’intuizione di quattro ricercatori che, provando e riprovando la glicemia su cavie canine, e scambiandosi le proprie intuizioni scaturite dalla febbrile ricerca, approdarono all'estratto di magic islets, chiamato da Banting e Best "Isletin "; Macleod più tardi riprenderà il termine universale "Insulin ". Nel 1923 è decretato il premio Nobel per la medicina a Macleod e a Banting: il primo lo divide con Collip, il secondo con Best. E qui esplodono le polemiche e le rivendicazioni reciproche fra gli scopritori dell'insulina; soprattutto da parte di Banting, scatenato contro Macleod, accusato di appropriazione dell'altrui fatica. Del resto, anche in seguito Banting riterrà Best un ambizioso e costui non considererà mai Banting come un vero scienziato. E' equo pensare che il quartetto, nel suo complesso, abbia ben meritato il premio. Comunque, visto oggi, il progetto sperimentale che ha portato alla realizzazione dell'insulina, è stato considerato "esemplare per eleganza e semplicità dal punto di vista metodologico ". Ma è certo che solo Banting manterrà il suo stile antinconformista, malgrado il conseguito titolo baronale. Morirà il 20 febbraio 1941 a Gander - Terranova, su un bombardiere che non riuscì a decollare a causa della pessima visibilità. Questa l’ufficialità della notizia, mentre il regista ci suggerisce altre inquietanti ipotesi, come sembrano dimostrare i riscontri di archivio, a Toronto, ove Renato Giordano – ne ha parlato dopo lo spettacolo, anche in ragione delle proprie competenze mediche - si è documentato per redigere con scrupolo la propria sequenzialità drammaturgica. 

8. Alla radice del Festival, c’è dunque il testo drammaturgico come genesi scritturale dello spettacolo. Ne è esempio Il colombo impaurito ( per Hrant Dink) di Raffaele Aufiero,( spettacolo prodotto da Studio 12 di Isabella Peroni), ove l’autore narra l’immensa, tragica, oscura forza intollerante e criminale che determina “leggi” proprie, sostituendosi alla legalità delle Leggi che gli Stati Comunitari non sempre riescono ad imporre. E se qualcuno cerca legittimamente di rappresentarne leggi e giustizia, coloro che gestiscono il mal’affare tentano di corromperlo; altrimenti, se non è corruttibile, lo uccidono. Appena due anni fa (19 gennaio 2007) veniva assassinato a Istanbul il giornalista armeno Hrant Dink, editore del settimanale bilingue AGOS, voce libera di una Turchia contemporanea. Il testo di Aufiero rimanda alla rievocazione scenica dell’omicidio del giornalista Hrant Dink, turco di origine armena, il quale mentre presagiva la sua fine, si definiva “colombo impaurito”. Una drammaturgia di impegno civile, quella di Raffaele Aufiero, in quanto ingloba il grande spazio della informazione e della cultura, nel momento in cui il crimine organizzato nei suoi tre livelli “ideatori, mandanti e sicari” non sopprime solo il giornalista politicamente esposto (per la sua vocazione alla giustizia, alla comprensione, alla pacificazione, alla tolleranza) ma, dice Aufiero, diventa crimine contro l’informazione, contro l’umanità, cioè un crimine orrendo commesso contro tutti coloro che credono negli stessi valori che Dink ha propugnato e sostenuto con sacrificio. Lo spettacolo, ben costruito registicamente da Renato Capitani sulla geometria della triangolazione scenica, si avvale dell’interpretazione di Pierluigi Littera con la sua espressiva presenza interpretativa nel ruolo per lui insolito e nuovo di un intellettuale votato al sacrificio, consapevole e rassegnato, lucido nella sfida quanto presago della tragedia che incombe, di Teodora Nadoleanu, paragonabile ad una Kore greca, che sfidando e respingendo le tentazioni imposte da una implicita quanto legittima e intrigante seduzione riesce a dare sostanza tragica e spessore scenico all’idea della sofferenza eterna, quella delle creature più esposte, e lo stesso Renato Capitani che incarna con eterea evanescenza la sapiente figura di Talete e si produce in un assolo finale potente, espressivo, allusivo nella sua terribile simbologia. Le parole pronunciate diventano, come dice il giornalista, “estensione della natura nella coscienza di ogni uomo. Attraverso di essa gli uomini diventano “umanità”. E su questo evidente assioma scaturisce, da parte del regista, il carattere della “scrittura” scenica nel senso etimologico, finalizzata a dare alla parola quel peso e quel movimento che la fanno diventare agglomerante metafora di senso ed emozioni. Le parole del testo, depositarie di dolore e di speranza per l’impegno civile profuso, teniamo a ribadirlo, contengono il seme etico e pedagogico della teatralità incorporata nel linguaggio. Esso non racconta il tempo della cronaca, ma colloca l’assassinio del giornalista dentro un tempo metaforico e scenograficamente metafisico, attraverso lo sfondo prospettico dell’imponente Moschea Blu di Istanbul (1616).Di fronte alla grande finestra vediamo la figura del giornalista mentre colloquia con il filosofo Talete. L’intreccio dei dialoghi, rimanda alla continuità dell’esistere e al divenire successivo e continuo dei giorni dell’umanità: “ La storia è già passata di qui, su questa terra è già passata. È vero Talete? ”. Sono parole significative che offrono possibilità di riflessione alla ragione e all’emozione di chi ascolta; ma al contempo parole buie, gravide di presagi: “E a te fanciulla che ti affacci alla vita e alla speranza vengo a narrarti l’abominio”. A questo punto Talete racconta con macabra descrizione la fine del colombo impaurito, mentre presagisce l’ombra del famelico e rapace gabbiano che dilania e sventra la colomba. Qui la recitazione sommessa lambisce la sfera del supplizio consentendo alla scarnificata parola la stessa sua autonomia semantica, già di per sé, dramma: dramma di sillabe e visioni cruenti, ben visualizzate con ritualità di gesti da Teodora Nadoleanu.Il messaggio di Aufiero è chiaro. Certo bisogna avere il coraggio di condannare qualsiasi violenza ( sia essa di matrice politica - ricordiamo Casalegno e Tobagi - che di matrice mafiosa - che ha spento le migliori menti di De Mauro e Fava). Ma inutile indignarsi se noi, gente di spettacolo, veniamo trattati ed etichettati come giullari addetti a sollazzare platee ridanciane. Troppo spesso meritiamo di esserlo. E invece sarebbe tempo che imparassimo ad essere padroni del nostro destino professionale, specie quando esso coincide con le grandi cause civili e umane delle idee, che attraverso le parole si fanno drammaturgia e scrittura scenica. 

9. Ci siamo chiesti, visionando il programma di sala, di quest’anno, come pure delle trascorse edizioni, come accanto agli atti unici e ai corti, siano apprezzati anche i monologhi che pur basati sulla performance dell’attore, mantengono, anzi evidenziano la scrittura drammaturgica del testo. Non credo che la scelta debba scaturire da esigenze economiche-organizzative, piuttosto il fenomeno di testi anche a più personaggi ma realizzati con la ri-scrittura scenica del monologo è da ricercare nella grande drammaturgia europea contemporanea, che è una drammaturgia del “monologo”, (da Beckett a Thomas Bernhard, da Ionesco a Pinter) ovvero della scrittura drammaturgica che valorizza allo stesso livello i personaggi del testo, i quali di volta in volta, durante lo spettacolo come “voci monologanti” si impadroniscono dello spazio; e della recettività della platea. Per l’appunto vogliamo menzionale la prestazione di Violetta Chiarini col suo“Le delizie del traffico” monologo comico con evocazione di personaggi, punto di approdo materiale per ulteriori esplorazioni e possibilità di approfondimenti, di cui è costituita la scrittura drammaturgica dell’autrice-attrice. Un assunto questo suggeritomi dalla stessa Chiarini, quando mi accennava che questo suo nuovo testo “Le delizie del traffico” sarebbe andato a costituire la sezione di una trilogia che “bolle in pentola” per la nuova stagione teatrale, corollario evolutivo del personaggio della Caterina di sempre, quella del suo delizioso spettacolo di successo dal titolo “Cerco casa”, di cui a suo tempo ci siamo occupati. Mentre mi accingo a scrivere queste brevi note, su questo metaforico “ingorgo” apprendo dalla cronaca che secondo i dati dell’osservatorio Autopromotec, nel Lazio si è raggiunta la cifra record di sessantasette auto ogni cento abitanti. Ed è, in questa Roma così congestionata dalle troppe auto, che l’autrice ambienta il suo nuovo testo, metaforicamente arricchito di un’ulteriore maquillage intepretativo, pennellato di febbrile humour, nonché di ulteriori invenzioni linguistiche idiomatiche, ulteriore studio, come dicevamo, dell’esilarante personaggio di Caterina. Eccola dunque in scena seduta di profilo su una sedia che lei, con la sua ricercata mimica e rumori registrati di avviamento motore, trasforma magicamente in autovettura da città. L’effetto è evocativo perché, dilatando l’ambiente scenico con il suo fluido raccontare, ricorda agli spettatori in sala il traffico che hanno dovuto affrontare per raggiungere il Teatro Tordinona, ubicato nel cuore di Roma, dov’è quasi impossibile trovare un posto libero per parcheggiare. E la Chiarini lo racconta con febbrile vivacità e coloriture lessicali, narrando i comportamenti scorretti degli automobilisti, il dissesto del manto stradale ove il tragitto compiuto diventa più pericoloso, anche più inquinante, come registrano le centraline che misurano le polveri sottili. Ecco allora lievitare la simulata quanto caotica, pericolosa circolazione urbana degli automobilisti romani che non rispettano la segnaletica, la distanza di sicurezza, la velocità oltre i limiti. Nell’eloquio tutto ciò diventa momento di partenza per creaturali viaggi lungo i canali prioritari della scrittura scenica, cui il pentagramma vocale e gestuale ricalca movimenti, attimi e situazioni della vita stessa: vera chiave della sua ricerca linguistica, con recupero di vernacoli osco-umbro-sabello. Al dunque, le tragicomiche avventure di cui Violetta -e i suoi alter-ego- sono oggetto e soggetto all’unisono, consentono a noi spettatori di poter criticare a viso aperto, senza mezze misure le mode e modi della realtà contemporanea in “liquidità” proterva. I comportamenti descritti sono caricature più rassomiglianti a dei ritratti e diventano situazioni di specchiante omologazione, molto ben recepite dal pubblico (quale critica e autocritica comportamentale, appunto). La Chiarini va oltre il verosimile quando inizia a raccontare, con accenni di ironia e considerazioni paradossali, che dal cielo di Roma piove su monumenti e autovetture parcheggiate una repellente, maleodorante poltiglia escrementizia, letteralmente una vera “merde” da leggere come metafora capitolina, causata dagli storni neri che nidificano in città in branchi numerosi (e, se si vuole, anche quale colta citazione ispirata a “Magnolia” e “Il giorno della locusta”). 

10. “Tutto il mio amore volevo darti” di Carlangelo Scillamà. Con Monica Menchi,Silvana Guerriero. Regia di Gabriele Tozzi, restituisce la messinscena dell’artefatto quale instabile lievitazione drammaturgica di un delirio “noir” i cui campi magnetici dell’attesa e dell’incontro, sono percorsi con ambiguità sul filo orrido d’una lucente lama d’acciaio sporcata di sangue. Segno, questo, premonitore del sogno e della follia che sembra rilevare l’ avvenuto misfatto, nell’atmosfera sordida di un soggiorno. E’ la metafora di una esoterica messinscena dove il demone dell’ “analogia” rimanda all’eros che si intensifica in dramma, simile ad un tragico balletto di nevrosi sullo sfondo del volgere quotidiano del rapporto di coppia. La recitazione tanto umbratile quanto misurata di Monica Menchi, satura di inquietanti traslati, lascia intendere rimozioni profonde, elabora il brivido dell’automatismo gestuale calibrato di segni “insanguinati”, anche attraverso la parola “convulsiva” caratterizzata dal turbamento psicologico, come fosse un’increspatura di vento alle tempie della follia. E’ l’autore ci propone in questo intrigante atto unico, saturo di sfumature psicologiche, il fondo del grogiolo umano, il segno della mitografia femminile colma di referenti onirici che germinano incosciamente in quella geografia paradossale del rapporto ancestrale donna-uomo. Tale rapporto non come polo di equilibri, ma come dissoluzione, in chiave di allusiva alienazione, degradante nell’andamento “analogico” di un gesto semantico, inequivocabilmente sanzionato come fantasia onirica. La cifra stilistica di natura neo-espressionista dell’allestimento (quale sinonimo di sintesi espressiva) adottata dal regista dà fisionomia ad un’aberrazione umana e d’ambiente. Essa si riassume nella duplicità sintomatica di quella donna frustrata nelle sue aspirazioni non realizzate, succube di celate repulsioni, sommersa nell’ imperturbabilità di progetti assassini nei confronti del marito. Messaggio di una “situazione” entro la quale il senso dell’angoscia si manifesta traslato e corrispettivo di un humour sottile e, dunque, proprio nell’umorismo nero, trova il suo sviluppo. Suggestioni di un inconscio che, come dubitava Freud, cede volentieri il passo alla “simulazione” di una amara caricatura donde traspare, comunque, il “senso” agitato di una casalinga tesa alla spasmodica ricerca di un estremo colloquio con il suo uomo.con cui) siamo costretti a convivere. Quantunque le incredibili situazioni di storie narrate inducono al sorriso, magari raffrenato ed amaro. 

11. Altro spettacolo-novità di notevole interesse (recensito dal critico letterario Franco Campegiani) e' Dante, imaginary conversations di Luisa Sanfilippo scritto e interpretato per intero dalla stessa, curatrice. Particolarmente apprezzato da pubblico e giuria, l’atto allegorico, che si avvale del progetto scenografico dell’artista visivo Vincenzo Sanfilippo, consiste in una onirica conversazione con Dante, che appare in realtà muto e imbronciato sulla scena, mentre un contorno di bizzarre e vocianti figure femminili gli alita accanto nella speranza di rasserenarlo e di rendergli pervio il cammino. Siamo sul mare, nell’immensa distesa d’acqua che richiama l’infinito. Ovunque e in nessun luogo si trova la Commentatrice, figura centrale della fiaba onirica, e in tale situazione non può non venire alla mente Dante, l’esule per eccellenza, il grande viaggiatore, nel suo periplo di conoscenze intorno all’animo umano: “Dante, Dante… Vedi il mare? Non è meraviglioso? Non è di un azzurro intenso? Osservane i riflessi. Ascoltalo. E prova a guardarti attentamente. Guarda dentro di te, Dante”. E’ l’epopea del viaggio, un invito a fare il vuoto mentale per potersi immettere nel mare autoanalitico, dove svolgere un percorso di ricche meditazioni interiori. In questo viaggio si è come sospesi tra il qui e l’oltre, tra desideri opposti di approdi e partenze, in un andirivieni incessante di onde, senza fine. E’ l’incontro/scontro, in chiave archetipica, tra due visioni del mondo – quella maschile e quella femminile – distinte e complementari. Il cielo e la terra, lo yin e lo yang, si contendono il campo, ma si conciliano alla fine tra di loro, rigenerando in Dante il desiderio di nuove battaglie e nuove avventure. Da un lato la psicologia maschile dell’altrove, nomade e proiettiva; dall’altro la psicologia femminile dell’hic et nunc, stanziale, introiettiva. Da un lato la visione metafisica e dall’altro quella ctonia del mondo e della vita, destinate ad incontrarsi in un progetto di pace e d’armonia. Due sono le presenze femminili che circondano Dante, eternamente crucciato e deluso, fin quando non riusciranno a farlo ridere e cantare, felice di questa nuova prospettiva. Abbiamo l’Angelo-Guida, severo e ieratico, che, pur aiutando il Poeta a trovare la propria via, non riesce a farlo sussultare più di tanto, se non – lievemente – pronunciando il nome di Beatrice. E c’è poi la Veggente, impertinente e beffarda, cui tocca di predire a Dante la sua Missione Fatale. Rivela, la Veggente, che l’accadimento straordinario consisterà nel sacrificio del Sommo Vate, nel suo dover morire fisicamente per rinascere spiritualmente “nel Luogo Sacro dove ogni difficoltà si appiana” e dove, “tra angeli danzanti e raggi di luce”, apparirà realmente Beatrice, impossibile amore terreno, ma concreto archetipo di pace nel mondo senza peso. Da lì, da quell’oceano di luce e d’amore, l’armonia invaderà finalmente e stabilmente anche gli umani, liberati dal destino di guerre che si sono creati. E’ questa la nobile, entusiasmante Missione che la Veggente rivela al Poeta, rincuorandolo e cancellando dal suo volto quell’espressione triste e inamovibile con cui lo conosciamo. “A te non basta, gli aveva detto l’Angelo-Guida, la gratificazione di essere considerato Poeta sovrano, immenso, uomo di pensiero, di scienza. Tu necessiti di essere imbevuto di forze straordinarie, di grosse motivazioni”. E’ ciò che accade ai benefattori del genere umano, costretti a pagare con la vita l’altezza dei loro ideali. 

12. Come maschera comica vogliamo evidenziare le clownerie di uno stralunato Simone Perinelli col suo corto “Cambio Vita” di cui ci preme riferirvi la gustosa dissertazione su la religione cristiana e religioni “altre” quale spunto da cui Perinelli costruisce il suo monologo. come dire: cambio religione per praticare il Buddismo. In una lettera indirizzata al Dalai Lama, spiegherà il motivo della sua scelta: potersi reincarnare. Ma il dubbio presto si cela: in che cosa? Potrebbe reincarnarsi in un essere di condizioni inferiori, come un lombrico, una farfalla? Umorismo gaio ma crudele, perché non bada all’infinita varietà di possibili reincarnazioni. L’argomento non risulta affatto ozioso, ma apre una sottile comicità attraverso il valore traslativo della mimica e della parola, di cui il nostro autore è maestro. La sua costruzione del personaggio attinge alla re-inventata semantica espressiva del cinema muto, in cui Perinelli ripropone silenziose clownerie sul genere dello stralunato, la cui vis comica si fa sciocchezzaio linguistico fatto di telefonate e di sms con le diverse divinità. Dunque una scrittura costruita sull’eccentricità del paradosso che descrive non un Dio assente, ma un “gestore” della vita che ha un oggettivo codice spirituale per promuovere comportamenti e scelte dei suoi utenti. E dunque per non perdere il suo cliente ( la sua pecorella che sta per smarrirsi) gli offre una migliore qualità della vita terrena, arrivando ad offrirgli una vita più lunga. Nella conduzione dell’esilarante spettacolo il linguaggio dei segni come pura gestualità di ammiccamenti o stupori psicologici, ri-plasma soprattutto la parola, la cui pronuncia a volte sillabica viene rimescolata in nuovi stratificazioni di senso, grazie alla comunicativa mimica facciale, propria di un “reincarnato” gag-man che formalizza una nuova comicità, ispirandosi al remake della tradizione, ampliandone e rivalutandone le valenze espressive. Non a caso Perinelli è socio fondatore della compagnia teatrale Art in Progress, e ha vinto diversi premi di comicità. 

13. Nella stessa scia del monologo che sa coniugare le capacità attoriali spinte a volte al limite della sperimentazione con la pregnanza di un testo spesso coraggioso dobbiamo segnalare ancora la superba prova di Rosalba Piras in Salomé dopo la cura ; di Nino Musicò in Ritratto di Donna… a capo e di Antonio Tramontano con Il servo di Laio. Nel primo monologo Salomè, adolescente invecchiata prima del tempo a causa di una malattia terminale, racconta la vera storia della decollazione di Giovanni Battista, assai lontana dall’originale biblico. Rievocando l’episodio dialoga con la madre e un piagnucolante Erode, di cui descrive la corte come un microcosmo in piena decadenza fisica e morale. La sola possibilità di salvezza, o di cura, viene appunto dal profeta e dall’unica medicina che gli sarà possibile donare da morto, un farmaco dal valore esclusivamente estetico e, tuttavia, non meno efficace. Nel secondo vediamo Lady Market, donna di camorra, che nella sua foga testamentaria rievoca alcuni passaggi della sua vita, che ne hanno determinato l’ingresso nel sistema malavitoso e la cui consacrazione a capo di una “famiglia” si è determinata attraverso un modalità del tutto peculiare alla sua natura femminile. In un microcosmo altamente codificato, l’orgoglio e la rivendicazione della sua femminilità la colloca al di fuori di quella drammatica antropologia, solitamente declinata al maschile, da cui prende commiato intimamente, senza alcuna apparente soluzione di continuità. Infine, nel monologo “il servo di Laio” l’autore A. Tramontano rispolvera il mito per riscrivere una differente interpretazione e una diversa drammaturgia. L’autore sviluppa un concetto del tutto differente, e quindi una diversa ipotesi del dramma. Una plausibile , diversa lettura, verosimilmente “bordelaine” per la comprensione di Edipo in relazione a Laio. Un figlio predestinato dal fato ad essere parricida e al contempo incestuoso. Dunque Edipo “servo di scena” apre il ritmo tragico dell’azione conducendo a prospettive freudiane che la psicologia sta ancora esaminando. .……………………………………………………………….. 

14. Come concludere allora questo breve saggio, il cui limite può essere quello di non essere esauriente nella trattazione e citazione degli altri autori partecipanti, e di cui ci scusiamo. Diremo allora che è dall’impegno del quotidiano, di una nuova generazione di autori, quella di “Schegge”, che viene un continuo richiamo alla drammaturgia come ad una necessità imprescindibile, un bisogno della parola nuova, che sia specchio, riflessione e testimonianza della nostra vita oggi. Bisognerebbe che la “generazione di schegge” utilizzasse la parola come “scrittura”, diventata più complessa, ma anche estremamente sintetica, direi affascinante, in quanto ingloba nel corpo scritturale le polisemie dell’immaginazione (poesia, musica, danza, architettura, pittura...), concretizzate nella forma spettacolo come accumulo e stratificazione espressiva. Pertanto ogni allestimento teatrale, costruito su scrittura drammaturgica, è da considerarsi atto creativo-espressivo nel momento in cui accade, nello spazio e nel tempo del corto, e le sillabe respirate dalla bocca dell’attore sono musica e ritmo, i suoi movimenti delineano una drammaturgia. Ogni movimento del corpo è un segno grafico nello spazio della scena, ogni traccia pittorica e calligrafica presuppone un gesto, ogni suono è un colore (e viceversa), ogni struttura articolata sottintende un linguaggio, la rappresentazione presuppone un codice. Così io intendo lo spettacolo vivo. 

Vincenzo Sanfilippo

VINCITORI DELLA IX EDIZIONE anno 2009

Miglior Autore corto: MARIO FRATTI (per GAMES - " Partite" e "Due Donne" );

Miglior Autore atto unico: MARCO LORENZI e BARBARA MAZZI ( per "la ballata degli impiccati" );

Miglior Autore monologo : MARIA PIA SETTINERI ( per "Processo alla sora Caesarina" );

Migliore Regia: ALESSANDRO VERONESE (per “ Mille anni al mondo " di Alessandro Veronese);

Miglior Attore: SIMONE PERINELLI (per “ Cambio vita” di Simone Perinelli ) ;

Migliore attrice : VIOLETTA CHIARINI (per “ Le delizie del traffico” di Violetta Chiarini );

Miglior Spettacolo: “ Le farfalle di ROAN ” di SABRINA BIAGIOLI, Regia dell'autrice, con : Sabrina Biagioli, Debora Giobbi, Gina Merulla;

Miglior regista giovane : TERESA CORDARO (per “ Cambio vita” di Simone Perinelli);

Migliori attrici giovani : ARIANNA GROSSI e MARIANGELA NUVOLI ( per " Rifiuti " di Tony Padilla;

Premio Sezione Internazionale : a TONY PADILLA ( USA );

Premio scrittura drammaturgica o d’innovazione: NINO MUSICO' ( per “ Lady Market ” );

Premio speciale GIURIA: a “IL COLOMBO IMPAURITO " di Raffaele Aufiero, all'intera Compagnia per la messinscena.

Premio speciale Artista di Arti Visive: a VINCENZO SANFILIPPO per gli allestimenti scenografici di " Dante imaginary conversations " di Luisa Sanfilippo, e " il colombo impaurito " di R. Aufiero.
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