Paesaggio con fratello rotto



di Alfio Petrini, Roma, marzo - aprile 2005







AMNESIA VIVACE 
"Paesaggio con fratello rotto"
di Alfio Petrini
 Che la Gualtieri e Ronconi abbiamo avvertito il malessere che attraversa l’occidente è segno d’indiscussa sensibilità culturale. Che di fronte al senso incolmabile di vuoto abbiamo sentito il bisogno di esprimerlo artisticamente, conferma la loro voglia di continuare ad essere artisti presenti e attivi in un Paese con pochi valori condivisi. Che esista una spaccatura tra "l’anima del mondo" e l’uomo della polis che non c’è è un dato incontestabile per innumerevoli motivi. Perché l’uomo nella sua interezza è stato fatto a pezzi. Perché l’uomo continua a trattare l’uomo per parti separate e distinte, invece di concepirlo in modo unitario. Perché gli uomini stanno l’uno contro l’altro armati. Perchè la necessità di apparire prevale su quella di essere, implicando la trasformazione del piacere in edonismo. Perché la dualità del materiale e dell’immaterile, del sapere e del non-sapere non è "passata" nella cultura contemporanea, che risulta sostazialmente materialistica, razionalistica, positivistica, legata agli assoluti ideologici. Perché lo sviluppo non coincide con un reale progresso umano, perché i progetti politici non sono accompagnati da progetti culturali, perché la politica si nega come atto supremo d’amore e si concrettizza in cinico esercizio del potere. E si potrebbe continuare, condividendo appieno il fatto che il "pezzo di brace cosmica" vacilla, che esiste uno scarto forte "tra ciò che sentiamo ( e diciamo ) e il modo in cui viviamo", che "siamo andati lontano da ciò che ci tiene in vita". Tutto questo è vero. Ed è anche vero che su questo versante, complesso e impalpabile, c’è il rischio di "bruciarsi la faccia e la veste", il che rende "Paesaggio con fratello rotto" un atto di fede coraggioso della Gualtieri e di Ronconi. Ma un conto sono le idee e il coraggio, un altro conto sono i risultati artistici.
Quando il drammaturgo scrive "Che cosa abbiamo dimenticato? Che cosa?/Quando piangiamo. Quando/siamo a pezzi./Quando il sole non ce la fa più/ a darci consolo? Quale/semplice formula? Che parola? Che cifra?", dice molte cose. Con la domanda retorica "Che cosa fa di noi solo/un grumo/nello splendore del mondo?" ne dice molte altre. E attraverso la bocca incredibile dell’oracolo ci spiega in dettaglio che "Ci serve denaro e/versamento di sangue. Confini, nomi/servono per ogni minimo stato. Poi/porte muri cancelli muraglie dogane/bastioni , muri e muuri, per il dentro/ e il fuori, per il qui e il lì, perché/tutto sia a misura del respiro, creduto/ vero, in quella sua piccola taglia/ di fiato". Mentre i concetti assalgono la mente, nascono domande senza risposta. Non abbiamo scoperto da molto tempo che al centro del teatro c’è il corpo, che al centro del corpo c’è il cuore, che al centro del cuore c’è il sangue che si fa pensiero, perché a sua volta il pensiero possa farsi sangue? I risultati convincenti di "Chioma" non sono derivati da questo inusuale processo, invece che dalla parola-concetto?
"Che cosa abbiamo dimenticato?" urla la Gualtieri. Abbiamo dimenticato il rapporto di relazione con l’uomo. Se salta questo rapporto, salta l’uomo, che diventa un buco d’uomo. Ma anche quando il drammaturgo dimentica l’uomo a due dimensioni (materiale e immateriale) e, invece di rappresentarlo, lo descrive e concettualmente lo spiega, salta il rapporto di relazione. Allora l’opera non ama e non possiede l’osservatore. Lo respinge piuttosto. Invece di regalargli emozioni, sentimenti e stupori, lo invita a pensare, a ragionare, a seguire il senso logico delle parole , mortificando le legittime pretese dei sensi.. E l’agognata poesia? Finisce per essere un’aura legata alla superficie del verso. Scaturisce dalla combinazione di belle parole, invece che dal comportamento del poeta rispetto alle cose che racconta. 
E, su questa strada, quando il macellaio vomita l’orrore di una natura e di una cultura disumanizzate, il poeta spiega ancora. E se spiega, al povero regista cosa rimane? Rimane la trasformazione della parola scritta in parola parlata, l’invenzione di qualche immagine a ornamento delle parole che dicono tutto (il dicibile e l’indicibile), la manovra degli attori e degli oggetti, la sovrapposizione di movimenti e di azioni fisiche alle parole. In altri termini, la scrittura drammaturgica non si offre nella sua autonomia per essere tradita attraverso l’atto d’amore del regista e dell’interprete, ma per essere accettata nella sua autarchia e assecondata nell’azione di spiegazione dell’idea. Il risultato è la dicotomia tra la parte concettuale/concettuosa della parola e la parte visiva dello spettacolo. Il fango diventa luce, ma la luce diventa metafisica della luce.
PAESAGGIO CON FRATELLO ROTTO
Tre tappe spettacolari ideate e dirette da Cesare Ronconi
Prima tappa: Fango che diventa luce.
Per tre animali, un macellaio, un oracolo, un cantore
Regia di Cesare Ronconi
Parole di Mariangela Gualtieri
Con Marianna Andrigo, Silvia Calderoni, Leonardo Delogu, Elisabetta Ferrari, Dario Giovannini e Muna Musssie
Musiche dal vivo di Dario Giovannini
Campionamenti di Aidoru
Scene di Stefano Cortesi
Costumi di Patrizia Izzo
Finico Luca Fusconi
Macchinista Federico Lepri
Organizzazione Morena Cecchetti e Emanuela Dallagiovanna
Produzione del Teatro Valdoca, in collaborazione con Teatro Bonci di Cesena, Drodesera Centrale Fies 2004

Roma, Teatro Vascello, dal 30 marzo al 3 aprile 2005.
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