La Polis che non c'è



di Alfio Petrini, "Inscena", febbraio 2005








"La polis che non c’è"

Alfio Petrini
"Inscena", febbraio 2005
  
I provvedimenti ministeriali che hanno colpito e ancora di più colpiranno le Compagnie del teatro di ricerca; la tendenza a legare la sopravvivenza delle Compagnie al confronto con il mercato - che si dovrebbe presupporre libero, ma che libero non è, perché sottoposto ad un forte dirigismo che discrimina soprattutto le forme teatrali più trasgressive o innovative; il riaffiorare di una vecchia concezione che attribuisce al testo teatrale il significato di opera unica e assoluta, negando allo spettacolo il valore di opera autonoma rispetto al testo; le dichiarazioni pubbliche e private fatte da esponenti del cosiddetto nuovo teatro, secondo i quali il teatro di ricerca sarebbe migliore del teatro di tradizione, impongono una riflessione seria e una presa di posizione netta sulla falsa dicotomia tra le due grandi aree dello spettacolo dal vivo, all’interno delle quali, come si sa, si manifestano variegate forme di comunicazione e di espressione artistica.
La ricerca e la tradizione sono due modalità del fare teatro e rappresentano i poli costitutivi di un sistema teatrale che voglia essere vivo, democratico, fattualmente pluralista. La contrapposizione tra tradizione e ricercaè, dunque, sterile e stare l’un contro l’altro armati è una sciocchezza. Non c’è ricerca senza tradizione e non c’è tradizione senza ricerca. L’affermazione è ovvia, ma l’ovvietà non appartiene alla cultura teatrale del nostro Paese. Il teatro di tradizione, come teatro mimetico soprattutto, ha subito attacchi furibondi per più di due secoli, ma nessuna avanguardia può affermare di averlo distrutto, semmai di averlo scalfito o cambiato in alcuni dettagli, e forse nessuna nuova avanguardia potrà cantare vittoria nel prossimo futuro. E poi, perché dovrebbe essere spazzato via? Migliaia di teatranti lo praticano, milioni di spettatori lo prediligono. Lo stesso ragionamento e le stesse considerazioni valgono per il teatro di ricerca. Paradossalmente: se una delle due tipologie dovesse essere cancellata per decreto legge, dovremmo lottare tutti insieme per ottenere l’abrogazione della legge.
Adorno afferma che "la tradizione può riemergere soltanto in ciò che ad essa spietatamente si nega". Negare non vuol dire cancellare. Vuol dire criticare, semmai. Esprimere una predilezione, riconoscendo il valore fondamentale della differenza: una piccola cosa sull’orlo dell’abisso, che va salvata dalle preclusioni culturali e dalle strumentalizzazioni politiche. Il gioco a dividere il buono dal cattivo piace ancora molto ed è duro a morire. E così s’ignora o si fa finta d’ignorare che non esiste la drammaturgia, ma esistono tante drammaturgie per tanti teatri per tanti pubblici. E’ un dato di fatto oggettivo e verificabile. Dunque, mentre la pluralità del linguaggio è una scelta, la pluralità dello spettacolo dal vivo è una necessità sociale. O si è pluralisti o non si è pluralisti. Non si può esserlo soltanto nei salotti della chiacchiera o quando vengono messi in discussione interessi individuali o di gruppo. 
Quanti delitti sono stati commessi sotto la bandiere sventolanti delle virtù ideologiche e delle filosofie della metafisica! Virtù che grandi e piccoli seminatori di speranze hanno lanciato – e lanciano tuttora - a piene mani per nutrire vecchie teorie e nuove divinità con la presunzione di salvare ogni volta il mondo. Delitti dell’anima e della parola, compiuti da artisti contro altri artisti. Delitti, che generano - oggi come ieri - riflessi inquietanti nel mondo quantitativamente piccolo, ma qualitativamente grande dello spettacolo dal vivo. 
Il problema è politico, nel senso che riguarda la polis. La polis che non c’è. E non c’è perché non c’è pluralismo fattuale. Perché non c’è un patrimonio teatrale condiviso. Perché manca il riconoscimento della differenzacome ricchezza creata da pochi per il bene di molti e difesa da tutti contro coloro che ambiscono a vincere sull’altro. Nessuno può consentire che una sola voce venga messa a tacere, se non si vuole arrecare danno grave al sistema teatrale nazionale e più in generale allo sviluppo culturale della comunità nazionale. Il progetto della creazione della polis rimane un obiettivo strategico lontano nel tempo, quanto necessario.

Dopo la caduta dei falsi idoli e delle false verità grandi quantità di uomini avvertono il bisogno di diventare piccoli costruttori di una grande civiltà delle idee, fondata sulla teoria e prassi dell’unità nella diversità, che nel caso specifico dello spettacolo dal vivo implica il passaggio strategico dall’assoluto ideologico alla civiltà delle idee, ovvero il superamento della rigidità delle istituzioni culturali pubbliche in base all’assunzione di nuovi criteri di gestione e d’inequivocabili rapporti territoriali. Ma comporta anche il riconoscimento del valore sociale ed economico dell’arte, il distacco dell’arte dalla ideologia, la rottura della dipendenza dell’arte dalla politica, tanto per citare alcune cose che stanno sotto gli occhi di tutti. Chi avrà il coraggio di fare il primo passo? Chi avrà il coraggio di mettere in discussione le rendite di posizione, acquisite per relazioni di potere, che sono state una delle cause delle riforme non fatte? A queste domande, per ora, non c’è risposta. Per un progetto politico che abbia un progetto culturale innovativo, e viceversa, serve un potere illuminato che metta in preventivo di cambiare se stesso, prima di cambiare gli artisti o i cittadini.
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