Danze barbariche



di Alfio Petrini, "Inscena", febbraio 2005







"Danze barbariche"
Alfio Petrini 
"Inscena", febbraio 2005

Il nome di una rassegna non è irrilevante. Offre un indizio. Indica una relazione con i contenuti. Nel caso specifico di "Danze barbariche", questo rapporto non esiste. Forse l’appellativo dipende dal fatto che la Rassegna doveva svolgersi nel teatro chiamato Campo Barbarico. Ma la questione più importante è di sostanza. In "Danze barbariche" non c’è niente di barbarico (aggettivo di specificazione) in almeno quattro quinti della proposta artistica. Le Compagnie che si sono messe insieme saranno giovani, saranno impegnate nella ricerca e faranno teatrodanza, ma mi pare che abbiano cercato corrispondenze con vecchi assunti ideologici di gruppo, piuttosto che con l’idea innovativa di una unità d’intenti nella diversità della poetica, finendo per cadere – non tutti – nel pantano di qualche inconsapevolezza teorico/pratica e dell’autoreferenzialità sperperante.
"Favoletta crudele" – testo, coreografia e regia di Oretta Bizzarri -, sul piano dei contenuti (qui l’aggettivo dice la sua) sta tutta nel titolo. Un mondo incantato, con regine crudeli, fate di ogni tipo e una bambina, che sta, come si legge nelle note di programma, "di fronte alla crudeltà", poverina. "La crudeltà" - come elemento di natura antropologica, essenziale ai fini dello sviluppo della personalità umana -, viene letta in chiave sociologica. Un fenomeno culturale che interessa anche le tragedie greche, ammannite a pubblici estivi di buona forchetta, in cui il pensiero simbolico è puntualmente disatteso e tradito attraverso operazioni di attualizzazione, bagni degradanti di modernariato quotidiano e cronachistico. Per quanto riguarda la proclamata combinazione "voce parole e danza", il gesto accompagna la parola e non fa teatrodanza. Chi ne paga le conseguenze è lo spettatore accorto, mosso dalla curiosità che non muore mai.
"Istruzioni per rendersi infelici" – coreografia e regia di Patrizia Cavola e Ivan Truol – s’ispira al testo omonimo di Paul Watzlawick. Affronta temi civili di grande interesse e attualità, che vanno dal tentativo di cambiare l’altro al potere sull’altro; dall’ansia che strozza il respiro e scatena la paura al bisogno d’amore; dal sospetto alla sfiducia, alla rabbia, all’illusoria infallibilità delle azioni umane. Piacevoli gli sprazzi d’ironia e i giochi verbosonori degli interpreti, tutti di buon livello professionale. Ma il tecnicismo generale (con l’eccesso di Marco Ubaldi) e il razionalismo di fondo dei contenuti espressi produce forme che non amano e non possiedono lo spettatore. A teatro si va per imparare niente. Si va per provare emozioni. Anche in questo spettacolo benfatto e a tratti piacevole, il logo metafisico del gesto, volendo illuminare, raggela e allontana. Non solo cancella ogni scintilla d’ombra, ma preclude la possibilità che essa possa essere generata. 

Beatrice Magalotti, con "hoh-h" – ci propone una sorta di balletto biomeccanico, fondato sul respiro, infilando una serie di sequenze: correre, spremere, prurificare/detergere, doppio respiro, tossire, annusare/aspirare rumorosamente col naso, dal rumore al silenzio. I nomi delle respirazioni sono state tratte dal Gyrotonic Expansion System. Ma "la banalità del respiro", che è una "banalità" importante, ) non è colta come occasione per fisicizzarla nello spazio scenico, generandoforme significative e seducenti, ma cade vittima . La tecnica spesso mortifica o annulla, quando c’è, il comportamento poetico dell’artista rispetto alle cose che racconta, se le racconta. La tecnica è importante, ma - dopo averla imparata – bisogna dimenticarla.

Ricky Bonavita – con il suo "Moods" – arreda uno spazio dove si può ascoltare musica jazz. Un barman che si muove sui pattini, alcuni giovani ambigui e una ragazza, sprovveduta quanto disponibile e inconcludente. Se l’omossessualità è una condizione umana rispettabile e può essere un tema interessante per farci sopra uno spettacolo, è altrettanto rispettabile l’auspicio che uno spettacolo pubblico non si ponga come fatto privato, in quanto privo di consistenza poetica, e pertanto artistica.
Dulcis in fundo Fabio Ciccalé, con il suo "In pectore". Se avesse dimenticato, qua e là, le tecniche, lavorando di più sull’istinto e sull’improvvisazione, avrebbe fatto uno spettacolo memorabile. Seppure problematica, l’opera merita grande attenzione e considerazione. Ciccalè parte con il piede giusto. Fonda il lavoro su un "codice tecnico contemporaneo", ma non disdegna l’improvvisazione guidata tendente ad utilizzare il sapere e il non-sapere degli artisti che lavorano con lui. Non desidera raccontare storie, ma squarciare pudicizie artisticamente inutili e mortali superficialità di comportamento, intrecciando comunicazione ed espressione nella prospettiva di quel teatro totale che ingloba tutto ciò che serve per rispondere – in termini cognitivi e sensibili allo stesso tempo – alle esigenze dello spettatore, il quale cerca cose molto semplici, ma sempre più rare nella danza o nel teatrodanza: stupori ed emozioni forti. In tal senso segnalo l’ottima colonna sonora di Emiliano Panepuccia e auspico che nella prospettiva di opere intertestuali e intermediali Ciccalè dedichi maggiore attenzione alla luce, che non serve ad illuminare le forme corporee, ma ad essere usato come codice espressivo autonomo, interattivo, in funzione determinante rispetto all’opera e agli effetti dell’opera. 
Il problema, se vogliamo chiamarlo così, è che non sempre le teorie trovano applicazione pratica nello spettacolo. Prediamo l’improvvisazione. Non è una metodica che si esaurisce nell’atto di accumulazione e spreco dei materiali linguistici, ma una pratica permeante che sfocia nella creazione artistica, rendendosi visibile. Agli artisti andava chiesto non di contribuire alla realizzazione della coreografia sul tema, importante, della animalità che attraversa lo spettacolo, ma di offrire la propria animalità, quella che risiede nel corpo umano. Di attingere cioè al tesoro nascosto della loro individualità. Di fare riferimento al cuore, al centro del corpo. La felice intuizione andava insomma riempita di contenuto interiore, riscaldata dal pulsare del sangue e generata dalla spinta istintuale personalizzata, e non lasciata morire nelle grinfie della ragione e della tecnica, anche con qualche sussulto sparso di natura descrittiva. 

Il riscontro positivo di questo striminzito ragionamento sta nei risultati alti conseguiti in alcuni segmenti di spettacolo. Quando il gesto coreografico lascia il posto all’azione fisica, la respirazione dell’interprete cambia, il viso - finora inespressivo, come staccato dal resto del corpo (perché?) -, s’illumina, diventa parte essenziale dell’uomo totale che si mostra, le forme diventano organiche e conquistano il cuore e la mente dello spettatore. Si sa, chi vede, diventa una visione.
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