Arte in transito


di Alfio Petrini













"Arte in transito".



Arte come transito, passaggio, percorso, attraversamento, marea, viaggio. Arte come unità nella diversità di linguaggi, lingue, dialetti e culture. Arte come teatro totale che sta di là dai generi poiché li comprende tutti. Teatro totale come spettacolo dal vivo fondato su una miscela linguistica eterogenea. Spettacolo come evento intertestuale, intermediale e sinestetico. Creazione artistica come processo tendente a ricreare la realtà, non a doppiarla.
Arte, dunque, come trasformazione, metamorfosi, sequela di sviluppi infiniti, passaggio dalla dimensione materiale alla dimensione immateriale che consente all’anima dell’interprete di cantare. Scandaglio nella tempesta degli errori e degli orrori umani. Intreccio tra movimento del pensiero e movimento del desiderio. Attraversamento del cuore d’ombra. Marea che porta con sé il rischio del naufragio. Immersione/emersione nelle/dalle acque torbide di Afrodite. Grido d’allarme di fronte all’abbaglio della metafisica della luce. Negazione degli addobbi natalizi che non illuminano. Messa a margine dell’assoluto ideologico che non concede agli occhi di vedere l’altro (l’altro da sé e di sé), di guardare altrove e altrimenti. 
Arte in transito come arte di transito. Arte dei luoghi e nei luoghi di transito, come quella presa in esame dall’ultima Vetrina internazionale del Centro Nazionale di Drammaturgia. Il Colosseo, gli anfratti della metropolititana, le stazioni ferroviarie, gli aeroporti, i ristoranti, i centro sociali, le alcove del piacere, le strade, le piazze, gli autobus, i ponti, le vie d’acqua, d’aria o di terra sono luoghi d’incrocio, d’incontro e di confronto. Luoghi come contenitori e contenuto di evento, dove ogni cosa parla. Crogiuoli dove sfrigola pericolosamente la materia linguistica. Dove regna il rischio, l’imprevisto, il meticciato. Dove tutto è possibile, come nella mitica Taverna di Aurbach. Fu in quel luogo che Faust e Mefistofele s’incontrarono. E da lì s’involarono, a cavallo di una botte piena di vini che erano vini e di vini che non erano vini, sfrecciando nel cielo della città. 
Quando il prima e il dopo, l’entrata e l’uscita, l’al di qua e l’al di là di un ponte o di una stanza appaiono uguali agli occhi di un personaggio che ha compiuto una determinata azione fisica, significa che quell’individuo è venuto a trovarsi in una situazione labirintica. Ma i termini della bipolarità possono anche risultare simili, il che vuol dire allora che lungo il percorso è accaduto qualcosa d’importante ed è avvenuta una trasformazione significativa in quell’individuo. In un caso e nell’altro le domande che nascono sono numerose. Cosa è avvenuto tra quel prima e quel dopo, tra l’entrata e l’uscita? E perché? La dimensione labirintica è il contenuto, è il messaggio che si vuole trasmettere, oppure rappresenta una situazione problematica cui va data una risposta risolutiva? Insomma, nel campo del favoloso possibile la garanzia di libertà creativa è assoluta. Non implica, ovviamente, proposizioni univoche e standardizzate, ma personalizzate, ogni volta diverse dalle precedenti, perché il processo e il risultato del processo sono legati alle finalità strategiche dell’opera, che oscilleranno più o meno tra comunicazione chiara e comunicazione oscura. 
L’arte può fare a meno del mistero e del valore aggiunto di natura poetica, se è vero – come sostiene Simon Weil – che alcuni problemi sono irrisolvibili per la mente umana? Il mistero non sta all’origine dell’insolubilità dei problemi e dell’insufficienza della ragione? Se questo è vero, non solo va accettato, ma accertato come elemento fondamentale della creazione artistica, se si vuole che questa parli al cuore e alla mente degli uomini. Il mistero è per l’arte quello che è l’acqua per il pesce o l’aria per l’uccello. Il mistero non è una perdita di senso, ma un quid che crea una realtà addizionata. Non è un vuoto, ma un silenzio riempito. La densità della comunicazione si manifesta sulla linea d’ombra che rende incerti e slabbrati i dati della realtà ed è percepibile sul crinale dell’inconciliabilità dei valori opposti e contrari. Ebbene, è in quel luogo che va ricercata la verità. Non la verità dell’assoluto ideologico, che pretende di interpretare il mondo, di dare una risposta a tutti i problemi del mondo e una volta per tutte, ma la verità che si nutre anche dell’ombra che illumina. Verità e mistero non si elidono, vanno di pari passo. S’incontrano sul terreno della dualità della natura e della cultura umana, del conflitto irrisolto, dell’artificio insito nella creazione artistica. 
Arte come menzogna, dunque, che dice la verità. Non come azione mimetica della realtà conosciuta. E l’artista? Il drammaturgo è un viaggiatore solitario che si addentra in territori sconosciuti e labirintici. E’ l’artefice di complicate combinazioni, prima, e di elaborate distillazioni, poi, che implicano lo spreco fino alla perfezione finale. E’ l’uomo errante che ritorna nel luogo da cui è partito, come Ulisse. 
Figura multiforme e misteriosa, Ulisse assomigliava – come sostiene il grande filologo Carlo Diano - a Ermes e Atena, le due divinità che lo proteggevano. Aveva una natura molteplice e versatile, come la loro. Poteva assumere tutte le forme, imboccare tutte le strade possibili, tendere verso tutte le direzioni in modo sinuoso e avvolgente. La sua mente era ricca di colori e di geroglifici, come un arazzo, un tappeto o un quadro. Era artificiosa come un’opera d’arte, intrisa di magmi notturni e segnata da costellazioni luminose, velata e misteriosa come la rotta dei ladri, dei mercanti e degli amanti.

Ulisse era anche un soldato, ma non amava molto le armi e le battaglie. Mentre gli altri guerrieri sognavano emulazioni e trionfi, egli prediligeva l’opera artigiana del muratore, del marinaio, del falegname e dell’artista, come se – per dirla con le parole di Celati – "tutta la sapienza artigiana della Grecia si fosse raccolta nelle sue mani prodigiose". Più che pestare il campo di battaglia gl’interessava navigare nel mare delle invenzioni, macchinazioni, furti, mistificazioni, trasformazioni continue. Vedeva e diventava una visione. Usava l’arte della seduzione per guidare gli ascoltatori nei meandri dei suoi racconti. Conquistato il corpo, conquistava la loro anima e quindi la loro attenzione. Era sincero e mentitore. Abile costruttore e ladro. Ma la sua doppiezza non aveva valenza morale. Si radicava nella dualità della natura e della cultura umana, principio fondante di ogni verità che si nutre anche del valore opposto e contrario. Era l’artefice di una precisione superiore che lo poneva accanto a Penelope come fratello gemello. Ulisse e Penelope erano fatti della stessa pasta. Sul cavallo e sulla tela costruirono la loro fama. Il cavallo di legno non fu tuttavia il capolavoro di Ulisse. Fu in fondo una piccola cosa. Un’astuzia. Il vero capolavoro di quella figura multiforme fu andare al di là dei limiti della realtà, oltre i confini del visibile e del palpabile, nel regno del misterioso e dello sconosciuto. 

Ulisse era il navigatore dallo sguardo duro e dal cuore tenero. Era il cultore della ragione lucente e del pianto irrefrenabile, discendente di quell’incantatore notturno che era Ermes, lo stregone, il traghettatore, il dio che possedeva la facoltà - non concessa ad Ulisse - di far calare il sonno sugli occhi degli uomini. E quando approdò sull’isola di Circe, trovò un’ingannatrice ancora più potente di lui. Con la maga ebbe un rapporto così profondo che rischiò di perdere la memoria e il desiderio di tornare nella terra di origine. Ripreso il viaggio verso Itaca, fu con l’aiuto di Circe che riuscì a superare le insidie dei mostri marini e l’incanto demoniaco della poesia. I vagabondaggi nel Mediterraneo, le disavventure e le difficoltà di ogni genere che dovette superare furono la materializzazione della forza che lo spingeva negli abissi vertiginosi del corpo e che lo portarono a scoprire il tesoro che vi stava nascosto. Era l’altro di sé. E viaggiando come naufrago trovò la sponda nel dio che sta dentro di lui. E lottando contro il dolore della mente e del corpo, fu attraversato da così tanti orrori e stupori che alla fine poté dire di aver imparato l’arte del sopportare le sofferenze del mondo e l’arte di raccontarle, ogni volta in un modo diverso, ogni volta suscitando l’incanto degli ascoltatori. Quando questi credevano che l’avventura fosse giunta alla fine, Ulisse introduceva altri fatti e altri avvenimenti, così da provocare in loro il desiderio di rimanere svegli per tutta la notte. Maestro d’inganni e di frodi, il più grande fabulatore della storia umana ha avuto alla sua scuola i letterati e gli artisti più illustri di tutti i tempi.

Rimesso piede nella sua Itaca, dimostrò di possedere anche la maestrìa del grande attore del teatro di strada, del teatro che cammina, camuffandosi da mendico e ostentando la necessità di un ventre insaziabile. Giurava e spergiurava come un fanfarone ubriaco e raccontava versioni sempre nuove della sua storia, ma sempre più vicine alla realtà dei fatti che lo avevano visto protagonista. In altri termini, nei momenti di maggiore finzione faceva riferimento alle cose più intime e profonde della sua esperienza umana, realizzando il massimo tasso di disvelamento. 

Come Ulisse, quanto cammino hanno fatto i drammaturghi, impoverendo sempre di più il teatro! Il loro destino è tornare ai primordi. Là dove le cose conservano la differenza. Dove la verità si mostra in un rapporto teso con la non-verità. Dove si realizza il luogo della contesa e dell’unità dei poli costitutivi della vita umana e, nel caso specifico, anche dell’arte. In questo palintos armonie valori opposti e contrari s’incontrano carichi di tensione, coesistono senza annullarsi e creano una realtà addizionata. Si tratta di uno spazio fatto di segni, dove la parola occupa una centralità riconosciuta, ma non esclusiva. Tutti i segni si connettono al symbolon che apre verso l’oscura verità. La mediazione tra i poli costitutivi della chiarezza e dell’oscurità genera il sapere, inteso come produzione di senso, sapienza, pensiero, conoscenza e abilità, ma anche come mistero, enigma, sensazione, percezione e sentimento. Il nostro sapere di noi include come suo centro un nucleo di sapere cognitivo e un nucleo di sapere percettivo che la società tragicamente materialistica in cui viviamo nega come dato di fatto, rompendo il principio dell’unità nella diversità, fondato sulla compresenza melos/logos, sfera razionale/sfera irrazionale, comunicazione/espressione artistica nel luogo della contesa. La patria dei produttori di nuove forme d’arte sta, dunque, nel luogo da dove sono partiti. Per questo nostos non occorrono piedi, cavalli o aerei intercontinentali. Ci vogliono abilità e conoscenze, ma anche alcune facoltà straordinarie, molto rare. Generalmente ignorate o sottovalutate per ignoranza o per convenienza, non sono oggetto d’insegnamento.

L’artista non imita. Porta ad essere ciò che prima non c’era. Uomo plurale e indivisibile, conta sulla forza della propria soggettività. Ha consapevolezza della vastità del mondo interiore a fronte dell’angustia del mondo esteriore, essendo il primo infinito e il secondo finito. Si maschera per perdersi. Si perde per ritrovarsi. Si camuffa per disvelarsi. Getta lo sguardo nell’abisso degli errori e degli orrori umani, a partire da quelli personali, compiendo atti di coraggio che nascono dalla paura e confidando nel dio nascosto nel "corpo glorioso". Per questo ha una capacità di estensione individuale la più oggettiva possibile. 

Se è vero che l’arte è la pratica liberata dalla menzogna di essere la verità, tornare ai primordi significa imboccare la via seguita da Ulisse per non lasciarsi catturare da Circe e da Calipso, e rimettere piede nella terra di origine. E facendo come Ulisse, l’artista deve rallegrarsi della morte di Orfeo per essere stato allo stesso tempo amato e amante di belle immagini. La bellezza sta nell’acqua fluttuante da cui è nata Afrodite, non in quella immobile in cui si specchiava Orfeo. Si tratta di bellezza minacciata d’inconsistenza, così come d’inconsistenza è minacciato ogni progetto tendente a conciliare natura e cultura. 
La conciliazione tra comunicazione chiara ed espressione oscura è senza dubbio apparente. Nel suo essere apparenza risiede l’insuperabilità del dissidio. E non potrebbe essere altrimenti, perché la vera conciliabilità equivale a distruzione, cioè a morte sicura. Il dissidio tra valore comunicato (memoria, ricordo, stile, esperienza, storia…) e il valore percepito (sensazione, sentimento, impressione, mistero..) è da lasciarsi aperto su una sorta di passerella sonnambulesca, rappresentata dalla soglia. E’ un dissidio che genera nuvole, che genera altre nuvole, e ancora nuvole. 
Ogni oggetto artistico è un’opera dove natura e cultura tentano il sogno della inconciliabilità insanabile, perciò creativa, funzionale ad una comunicazione che non si concretizza in forme di descrittivismo più o meno alto, ma nell’assunzione di un comportamento poetico rispetto alle cose da raccontare, avente come obbiettivo il relliano "enigma della bellezza", ovvero il "colore umbratile" della forma organica. Si tratta in sostanza di stendere un velo: un’azione palesemente incompatibile con la pratica drammaturgica dello spiegare l’inspiegabile, del trattare il bene e il male come elementi separati e distinti di una realtà da doppiare, invece che come valori irriducibili di una realtà complessa da ricreare. Ed è altrettanto evidente che i passaggi, le maree, le trasformazioni continue e gli attraversamenti di benjaminiana memoria debbano essere intesi come processi inevitabili, quanto necessari, della creazione artistica posta nella prospettiva della produzione di sapori e profumi straordinari, di forme e contenuti destinati a durare nel tempo. E dopo, l’opera può essere soltanto tradita, e pertanto complicata. Analizzare, criticare, leggere, conoscere un’opera qualsiasi vuol dire analizzare, leggere e conoscere il velo che lo separa da noi. Non consiste nel dare una spiegazione razionale al tutto, una volta per tutte. Il velo può e deve essere complicato, se si continua ad accettare metodicamente "la luce/parola", come dice Rella, assieme "all’intrigo pericoloso dell’ombra".

Dunque, creazione artistica come nostos. Come ritorno ad una intertestualizzazione complessa, finalmente totale. Su questo terreno non c’è la parola piana. C’è un sistema di segni, verbali e non verbali, che rimandano a sistema di codici espressivi. Ci sono le frasi, certo, ma assieme a tutto quello che viene lasciato alla soglia delle frasi. C’è la lingua come parola, ma anche come silenzio riempito, canto, grido, bisbiglio, traccia di suono che svanisce, traccia d’immagine che muore. C’è il materiale e l’immateriale. L’incolore, l’informe e il multiforme. Ci sono le peculiarità ritmiche che arrivano fino alla musica, fino alla danza. C’è il valore intersemiotico generato attraverso i secoli, memore delle possibilità infinite che ha la lingua di racchiudere in sé i fantasmi e le proiezioni di tutti e cinque i sensi. Nel presupposto della teoria e prassi dell’unità nella diversità e della pluralità del linguaggio si può contare su un potenziale formidabile per creare un oggetto artistico intertestuale, intermediale e sinestetico, a condizione – come si è detto – che abilità e conoscenze s’intreccino con alcune facoltà straordinarie. Ma non è l’oggetto che è bello. E neppure il suo involucro. E’ l’oggetto nel suo involucro che è bello. Ed è bello, se ama e possiede lo spettatore. Se eccita l’animo degli uomini, liberando le palpebre dal sonno, come accadeva con i racconti flessuosi e avvolgenti di Ulisse. ( Alfio Petrini ).
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