Murgia



di Alfio Petrini - Roma Marzo 2004


Amnesia Vivace


On line mese di maggio 2004 – www.amnesiavivace.com


"Murgia"



di 
Michele Santeramo
Teatro Minimo



La storia di un ragazzo che torna nella terra d’origine, dopo averla abbandonata, è la storia di tanti di noi. Abbiamo pensato altro, altrimenti, altrove, sognando di varcare il confine. Siamo andati di là del ponte, immaginando nuovi mondi e nuovi approdi. Sappiamo bene cosa significa vivere in paesi sperduti nella campagna, dove la vita era, ed è ancora, segnata dalle stagioni, dalle morti e dalle nascite. Conosciamo bene lo stupore e l’orrore per i "sovrumani silenzi". Spinti dal movimento del desiderio ci siamo portati di là dalla soglia, palpitando di gioia per la salvezza e di paura per la fuga. L’avventura di chi lascia la propria terra si regge su valori opposti e contrari – paura e meraviglia, finito e infinito, minimo e massimo -, che si rovesciano l’uno nell’altro, come ora sappiamo, e che, data la sublime e tragica somiglianza, c’introducono nella dimensione labirintica della vita. E sappiamo anche, ora, di dover lasciare irrisolta la dualità della natura e cultura umana, nel rispetto del principio della "irriducibilità" degli opposti, fondamento della creazione artistica. Il minimo di ciò che lasciamo e il massimo del vagheggiamento. E poi, al ritorno, il massimo di quello che non sapevamo e il minimo del favoloso possibile che abbiamo realizzato. La relatività occupa una posizione centrale nel destino degli uomini.

Ecco, è di questo nostos che parla "Murgia" del Teatro Minimo, testo di Michele Santeramo e interpretazione di Michele Sinfisi. Racconta la scoperta che un ragazzo fa della sua terra. Odiata, disprezzata, abbandonata, e per lungo tempo sconosciuta, si rivela improvvisamente come parte integrante e insostituibile della sua natura e della sua cultura. Evidentemente, senza saperlo, il suo cuore e la sua mente non l’avevano mai dimenticata.

Il tratturo della Murgia non è solo un tratturo. I suoi iazzi, le sue lame e le sue masserie non sono soltanto iazzi, lame e masserie. Sono la sostanza della terra. I profumi, i suoni e gli odori sono di quella terra e non di un’altra. Le parole e le facce sono fatte di terra, di quella particolare terra di cui sono fatti tratturi, iazzi, lame, masseria, suoni e odori, che assieme alle facce, alle parole e alle storie costituiscono l’identità della Murgia, quindi del ragazzo nato in quel lembo di terra. Tutto risulta leggibile, ora. Bellezze, errori e orrori sono perfettamente leggibili, ora. Anche ciò che appare illeggibile è leggibile. Anche l’impalpabile e l’invisibile sono percepibili. E le tracce immateriali, lasciate dagli uomini, vagano nell’universo in cerca del poeta che le riconosca e le canti, a condizione che non renda dicibile l’indicibile. 


Il poeta torna sempre sui suoi passi. Maree, passaggi, attraversamenti senza sponde mettono a dura prova le sue capacità e la sua resistenza. E proprio quando approda nel luogo da dove era partito immaginando grandi imprese, ha inizio il vero viaggio della conoscenza. Scopre ciò che è altro da sé e di sé. Capisce che le avversità patite dalla sua terra e i fatti inquietanti che l’hanno a lungo martoriata e in parte devastata, la condannano a stare in bilico tra la "salvaguardia" e lo "sfruttamento sistematico". E solo adesso che è tornato comprende che, per quanto se ne allontanerà, mai riuscirà a staccarsene completamente - pena la perdita d’identità -, essendo essa memoria, radice, nutrimento. 


Il poeta è un uomo lucertola attaccato al muro di cinta. Occhio folle e sorriso dipinto sulle labbra che gli dà l’illusione di potersi salvare dalla vita. L’uomo lucertola Santeramo ha un forte comportamento poetico e come tutti i poeti desidera fare qualcosa per la sua terra, ora. Ma che può fare un poeta, se non attaccare alle parole la sua terra? E che può fare l’uomo lucertola Sinisi, se non attaccare il gesto alla parola nella lingua e nel dialetto messi a disposizione il drammaturgo? Ma il teatro è corpo. Anche la parola è corpo, e l’anima può cantare solo attraverso il corpo. Sinisi e Santeramo lo sanno. La teoria e la prassi della dualità non sono passate nel nostro paese. L’ideologia del partito preso ha ucciso la cultura e la cultura ha ucciso la parola. I nostri sanno affrontarla a colpi di scalpello, andando oltre la crosta, questo è certo, e non è cosa di poco conto. Ma può bastare? Invitare al banchetto l’uomo totale, offrendo come unica pietanza il logos della parola, vuol dire mandare a casa l’ospite con un desiderio insoddisfatto. Attorno al tavolo dell’offerta quell’uomo reclama attenzione anche alla parte immateriale ed irrazionale del suo essere e chiede sensazioni, emozioni, sentimenti, non solo pensieri. Se è vero che il dato cognitivo non può essere separato da quello percettivo, la cognizione del dolore avrebbe dovuto indurre il drammaturgo a mettere in preventivo non solo la parte visibile, ma anche quella invisibile del paesaggio, e l’attore ad affidarsi alla dualità della sua natura e della sua cultura nella prospettiva di un atto totale teso a soddisfare appieno le attese dello spettatore. Con la sua carica intrinseca d’istintività e di spazialità (antitetiche al logos della parola e del gesto), quell’atto forse avrebbe reso giustizia agli odori, ai profumi e ai sapori pregnanti di quella terra.

"Murgia" reclamava il premio di una festa sinestetica, che avrebbe condotto gli uomini lucertola oltre i canoni angusti della tradizione immobile. Invece, rimettendo piede nella loro terra, si sono dimenticati di tornare ai primordi del teatro ed alle impliciti geometrie del caos. Non è nelle acque limpide di Narciso, ma in quelle torbide d’Afrodite che il rito della ri-creazione e l’atto (auspicabile) della ri-generazione teatrale nella prospettiva della pluralità del linguaggio attendono apporti quantitativamente e qualitativamente sempre più importanti. Santeramo e Sinfisi hanno le capacità per dare un contributo significativo. Con "Murgia", e non solo, si sono posti un altro obiettivo, legittimo, dimostrando di avere innegabili capacità artistiche e professionali. Hanno ottenuto il massimo del Teatro Minimo. Noi gli chiediamo il minimo del teatro massimo, perché siamo degli impertinenti. (Alfio Petrini)


Teatro Furio Camillo, marzo 2004, Roma

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